Nonostante l’espressione sia alquanto infelice, viene qualificato come “danno da nascita indesiderata” il danno non patrimoniale subito dalla gestante, derivante dalla mancata diagnosi di malformazioni ed altre anomalie del feto da parte del medico specialista al quale la stessa si sia rivolta durante il periodo di gravidanza e sul quale, peraltro, gravano precisi obblighi informativi.
Sulla risarcibilità di tale danno e soprattutto sul relativo onere probatorio, la Giurisprudenza e la Dottrina hanno avuto modo di dibattere a lungo: il tema è delicato ed incide sulla sfera più intima della persona e sul diritto della gestante di autodeterminarsi in modo libero e consapevole in ordine alla prosecuzione o all’interruzione della gravidanza, coinvolgendo profili, oltre che psichici, anche morali, religiosi ed etici.
In tempi recenti, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sembrano aver preso una posizione netta in merito, risolvendo di fatto il precedente contrasto tra diversi orientamenti, affermando che “l’impossibilità della scelta abortiva della madre, imputabile a negligente carenza informativa da parte del medico curante, è fonte di responsabilità civile, ove ricorrano i presupposti di cui all’art. 6 della l. 22 maggio 1978, n. 194, cioè siano provate le rilevanti anomalie del nascituro e il loro nesso eziologico con un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna nonché la conforme volontà abortiva di quest’ultima. Trattandosi di un accadimento complesso ed essendo impossibile fornire la dimostrazione analitica di tutti gli eventi e i comportamenti che lo compongono, è sufficiente porre a oggetto della prova alcuni elementi rappresentativi dell’insieme, dai quali possa derivare la conoscenza, per estrapolazione, dell’intero fatto complesso. L’onere della prova del fatto psichico, nel caso di specie costituito dalla volontà abortiva della gestante, può essere assolto tramite dimostrazione di altre circostanze, anche atipiche, emergenti dai dati istruttori raccolti, dalle quali si possa ragionevolmente risalire, secondo un criterio di regolarità causale, all’esistenza del fatto psichico da accertare. Resta sul professionista la prova contraria che la donna non si sarebbe determinata comunque all’aborto, per qualsivoglia ragione a lei personale” (Cass. civ. S.U., 22 dicembre 2015, n. 25767).
Ai fini della risarcibilità del danno, dunque, grava sulla donna l’onere di provare, anche in via presuntiva, che se fosse stata tempestivamente informata sull’anomalia fetale, avrebbe esercitato la facoltà di interrompere la gravidanza, in presenza delle condizioni di legge; grava sul medico la prova contraria.
A tal proposito, occorre ricordare la legge n. 194/1978, a cui la pronuncia sopra menzionata ha fatto riferimento. Ai sensi dell’art. 4 e dell’art. 6 di tale legge, infatti, l’interruzione volontaria della gravidanza può essere praticata entro i primi 90 giorni per la “donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”; dopo i primi 90 giorni, solamente in casi ritenuti eccezionali, ossia: “a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”.
In linea con l’ultimo arresto giurisprudenziale, la Cassazione ha recentemente escluso la sussistenza dei presupposti per il risarcimento del danno ad una coppia che contestava la mancata rilevazione dell’assenza di un arto nel nascituro da parte del personale medico in sede di ecografia morfologica. Nel caso di specie, infatti, non è stata ravvisata una situazione tale da poter legittimare secondo i termini di legge un’eventuale scelta di interruzione della gravidanza.
In tale occasione, applicando i principi elaborati dalle Sezioni Unite sul tema e confermando la decisione della Corte d’Appello di Milano, che aveva respinto il ricorso dei genitori, i Giudici di legittimità hanno affermato che “la mancanza della mano sinistra del nascituro non è una malformazione idonea a determinare un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, requisito imposto dall’art. 6, lett. b), della l. n. 194 del 1978 per far luogo all’interruzione della gravidanza dopo i primi 90 giorni dal suo inizio, sicché, non potendosi legittimamente ricorrere all’aborto, dall’omessa diagnosi dell’anomalia fetale non può derivare un danno risarcibile” (Cass. civ., Sez. III, 11 aprile 2017, n. 9251).
Oltre a ribadire i limiti entro i quali è ammissibile la risarcibilità di un “danno da nascita indesiderata”, quest’ultima sentenza ha ulteriormente confermato la posizione delle Sezioni Unite per cui, non essendo previsto dal nostro ordinamento il c.d. aborto eugenetico prescindente, cioè, dal serio e grave pericolo per la vita o la salute fisica o psichica della donna, l’interruzione di gravidanza non può essere utilizzata “come strumento di programmazione familiare, o mezzo di controllo delle nascite” (Cass. civ. S.U., 22 dicembre 2015, n. 25767).
Avv. Filippo Genovesi