Il reato di omesso versamento IVA previsto dall’art. 10-ter del d.lgs. n. 74/2000 punisce il soggetto che, in piena coscienza, omette di versare l’imposta sul valore aggiunto dovuta sulla base della dichiarazione annuale. Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel definire il reato in questione come reato a dolo generico: è quindi sufficiente la coscienza e volontà di non versare all’erario l’I.V.A. dovuta in base alla dichiarazione a ritenere integrata la fattispecie a livello soggettivo, indipendentemente dalla finalità sottesa al mancato versamento (in tal senso il delitto in questione si differenzia, ad es., dal reato di dichiarazione infedele, per il quale è richiesto il fine specifico di evasione dell’imposta).

Secondo la giurisprudenza, la prova del dolo è insita nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e deve quindi essere versato (o quantomeno contenuto entro le soglia di punibilità) entro il termine previsto per il versamento dell’acconto relativo alla successiva annualità.

Secondo una lettura consolidata dell’art. 10-ter, la sussistenza del reato in questione prescinde dunque dalla verifica della motivazione che ha spinto il contribuente a non versare l’imposta: a nulla varrebbe, pertanto, sostenere che il contribuente è stato impossibilitato ad effettuare il pagamento per un’improvvisa crisi di liquidità.

Un’ipotesi decisamente frequente nel sistema economico attuale, afflitto ormai da diversi anni da una perdurante crisi finanziaria, eppure del tutto ignorata dalla della Corte di Cassazione, quantomeno fino a un lustro fa.

Nel corso degli ultimi anni, infatti, la Suprema Corte ha finalmente inizia ad ammettere – pur solo in linea di principio – che la crisi economica che colpisce un’impresa possa astrattamente assumere valenza di esimente per l’imprenditore inadempiente.

Più in particolare, affinché possa dirsi escluso l’elemento soggettivo del reato, secondo la giurisprudenza occorre la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un’improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale (così Cass. pen., Sez. III, 5 aprile 2014, n. 1541; Cass. pen., Sez. III, 9 ottobre 2013, n. 5905).

Più specificatamente, la giurisprudenza ha ritenuto insussistente in capo all’imputato l’elemento psicologico richiesto per l’integrazione del reato in questione in ipotesi in cui, in modo concomitante:

  1. l’omesso versamento fosse direttamente connesso alla grave condizione di illiquidità che affliggeva l’impresa;
  2. la crisi di liquidità derivasse da circostanze anormali, indipendenti dalla volontà del contribuente (quali ad esempio l’improvvisa crisi del principale cliente della società, oppure una repentina stretta creditizia da parte delle banche);
  3. il soggetto attivo avesse posto in essere tutte le azioni, anche sfavorevoli al proprio patrimonio, necessarie ad evitare l’omissione.Peraltro, non può nascondersi che nella prassi la Cassazione abbia applicato tale principio in modo molto sporadico, non ritenendo integrati nella maggior parte dei casi i requisiti poc’anzi delineati.In chiusura, al fine di meglio comprendere la portata del principio appena espresso, è senz’altro utile riepilogare alcune recenti pronunce particolarmente interessanti:
  4. Applicazioni molto più frequenti si sono rinvenute invece nella giurisprudenza di merito, dove si possono riscontrare numerose sentenze di assoluzione in relazione ai reati di omesso versamento dettato da crisi improvvisa di liquidità.
  5. È quindi evidente che tale orientamento non prevede che la crisi di illiquidità rivesta un carattere esimente in sé e per sé, ma soltanto a condizione che il mancato adempimento delle obbligazioni tributarie sia derivato da fatti non imputabili all’imprenditore e ai quali egli abbia tempestivamente tentato di porre rimedio, sicché possa a buon ragione ritenersi che l’omissione fosse di fatto una scelta necessitata.
  • Tribunale di Campobasso, Sent. 24 gennaio 2017. Nel caso in ipotesi, il Tribunale ha ritenuto che la crisi di liquidità nella quale era incappato l’imprenditore fosse stata determinata da un drastico ed improvviso calo delle commesse, e che l’imprenditore avesse comunque tentato di fronteggiare la crisi in ogni modo, in particolare presentando un’istanza di omologazione di un accordo di ristrutturazione del debito (poi sfociata in procedura di concordato preventivo). Nella sentenza in questione, il Tribunale ha riconosciuto carattere esimente alla crisi di liquidità che ha colpito l’azienda, rivelatasi di fatto insormontabile per l’impresa, nonostante fossero stati esperiti tutti i tentativi del caso allo scopo di reperire la liquidità necessaria.
  • Tribunale di Brindisi, Sent. 12 gennaio 2017. Nel caso in questione, il Tribunale ha riconosciuto che l’imputato, all’epoca dei fatti, fosse stato impossibilitato a reperire le risorse finanziarie necessarie per far fronte agli obblighi tributari. Più nello specifico, le ragioni della crisi erano dovute al sostanziale insuccesso di un piano di ampliamento del posizionamento sul mercato dell’azienda, che aveva causato un aumento dei costi rispetto agli esercizi passati. Per far fronte a tali problematiche, la Società aveva intrapreso ogni iniziativa del caso per fronteggiare la crisi e far fronte al pagamento dei debiti erariali, chiedendo, in particolare, al Tribunale di Brindisi di essere ammessa alla procedura di concordato in continuità finalizzato a una transazione fiscale ex artt. 160 e 186-bis l.f., al fine di proseguire l’attività e di poter pagare il debito erariale con gli utili che ne sarebbero derivati. Tuttavia, nel corso della procedura erano emerse talune criticità (in particolare, la cessazione dei rapporti con un fornitore) che avevano poi determinato l’impossibilità di proseguire l’attività. La Società era poi stata dichiarata fallita nel corso del 2015. Ciò considerato, stante le ragioni della crisi economica irreversibile venutasi a creare, il Tribunale ha comunque riconosciuto che, mediante l’adozione della procedura ex artt. 160 e 186-bis l.f., la Società avesse posto in essere tutte le azioni necessarie per tentare di reperire le somme necessarie e che ciò nonostante, si fosse comunque trovata nell’impossibilità di adempiere all’obbligazione tributaria.
  • Tribunale di Pordenone, Sent. 30 novembre 2016. Nel caso specifico, secondo il Tribunale la crisi era scaturita da alcuni mancati pagamenti da parte delle Pubbliche Amministrazioni, i quali a loro volta avevano scatenato un restringimento del credito da parte delle banche; a fronte di un contesto economico di grave crisi per il settore metalmeccanico (del quale faceva parte la Società in questione), i tre amministratori avevano comunque tentato di salvare la Società effettuando un versamento in conto futuro aumento di capitale di 100.000,00 Euro ciascuno. Tali somme sono state immediatamente destinate ad estinguere i debiti verso banche e fornitori, con l’auspicio di far così riguadagnare l’operatività finanziaria e la continuità aziendale. Per tali motivi, il Tribunale di Pordenone ha escluso che potesse essere mosso alcun rimprovero alla gestione aziendale, specialmente perché “per ripianare l’esposizione debitoria dell’impresa, pur non essendone obbligato dalle disposizioni civilistiche – che in caso di s.r.l. prescrivono un’autonomia patrimoniale perfetta tra società e soci -, ha ritratto liquidità anche erogando finanziamento infruttifero con denari personali e familiari”. 

 

    Dott. Andrea Vareschi