Nel nostro ordinamento, la tutela del software come opera d’ingegno è prevista dalla l. 633/1941 (cd. legge sul diritto d’autore), così come modificata dal D.lgs. 518/1992, che ha introdotto specifiche forme di tutela per i programmi informatici.

Più in particolare, ai sensi dell’art. 2 co. 1 della suddetta legge sono protetti “i programmi per elaboratore, in qualsiasi forma espressi purché originali quale risultato di creazione intellettuale dell’autore”.

Al fine di contrastare le condotte di duplicazione, cessione, importazione, distribuzione, vendita e semplice detenzione di programmi informatici sprovvisti di licenza d’uso, il legislatore ha predisposto una serie di sanzioni di carattere penale, cui si affiancano anche sanzioni amministrative pecuniarie che prescindono dall’accertamento del reato.

  1. SANZIONI PENALI: Art. 171-bis

La materia della tutela penale del software è quasi interamente disciplinata dall’art. 171-bis, cui si affianca, quale ipotesi residuale e di scarso interesse applicativo, l’art. 171.

Nello specifico, l’art. 171-bis punisce con la pena della reclusione da sei mesi a tre anni e della multa da Euro 2.582,00 ad Euro 15.493,00, chi pone in essere una delle seguenti condotte:

1)      abusiva duplicazione, a fine di profitto, di programmi per personal computer;

2)      importazione, distribuzione, vendita, detenzione a scopo commerciale o imprenditoriale, a fine di profitto, di programmi contenuti in supporti non contrassegnati dalla SIAE.

Per entrambe le fattispecie è prevista un’aggravante se il fatto è di rilevante gravità.

I due reati sono sostanzialmente sovrapponibili dal punto di vista del soggetto agente (“chiunque”; sono quindi reati comuni), dell’oggetto (i programmi per elaboratore) e dell’elemento soggettivo (dolo specifico: “per trarne profitto”).

Diverse sono invece le condotte oggetto delle due fattispecie: nel primo caso viene punita l’abusiva duplicazione del software; nel secondo, l’importazione, la distribuzione, la vendita o la detenzione di programmi sprovvisti del contrassegno Siae.

Di conseguenza, soltanto ai fini della sussistenza della prima ipotesi il programma deve essere stato abusivamente duplicato, mentre nel secondo caso è sufficiente che il software sia contenuto su un supporto privo del contrassegno Siae[1] (Cass. Pen. 3402/2014). Per dirsi integrata la seconda fattispecie non è quindi necessario provare l’effettiva duplicazione ad opera del soggetto agente.

Proprio per tale motivo, considerate le difficoltà probatorie che caratterizzano la fattispecie di abusiva duplicazione (è infatti complesso provare che la duplicazione sia stata effettuata dal soggetto agente, specie in contesti professionali/imprenditoriali nei quali diverse persone utilizzano più computer connessi in rete tra loro), il reato che trova più frequente applicazione nella prassi è quello di illecita importazione, distribuzione, vendita e detenzione, a scopo commerciale o imprenditoriale, di programmi privi di licenza SIAE.

Ai fini dell’integrazione di tale fattispecie, la norma richiede che la condotta illecita sia finalisticamente orientata al profitto, da intendersi – come ormai pacifico in ambito giurisprudenziale – come qualsiasi tipo di utilità, non necessariamente di natura economica: può consistere, ad esempio, in un semplice risparmio di spesa, o in un vantaggio di natura morale o affettiva (Cass. Pen. 25104/2008).

Altro elemento essenziale della fattispecie è rappresentato dallo scopo commerciale o imprenditoriale dell’importazione, distribuzione, vendita o detenzione. Sulla definizione di “scopo commerciale o imprenditoriale” la giurisprudenza è oscillante: posto che le condotte di importazione, distribuzione e vendita appaiono geneticamente caratterizzate da una finalità di carattere commerciale, maggiori dubbi sorgono invece con riferimento alle condotte di mera detenzione (di gran lunga le più diffuse nella prassi).

Se da un lato, infatti, la giurisprudenza maggioritaria ritiene integrata la detenzione a scopo commerciale anche a fronte di un utilizzo del software legato alle finalità proprie di una qualsiasi attività di impresa (Cass. Pen. 44279/2013; Cass. Pen. 49385/2009; Cass. Pen. 33896/2001), una recente pronuncia della Cassazione ha notevolmente ristretto i confini dell’art. 171-bis, affermando la necessità che il soggetto responsabile dell’illecito svolga un’attività imprenditoriale consistente nella messa in vendita dei programmi illegittimamente detenuti (Cass. Pen. 6988/2014).

Tale principio porterebbe quindi a ritenere che i comportamenti sanzionati dall’art. 171-bis siano soltanto quelli orientati alla commercializzazione del software sprovvisto di licenza, e non anche alla detenzione finalizzata al mero utilizzo “interno” all’impresa.

Al momento, tuttavia, tale ricostruzione – avallata da alcune sentenze di merito[2] – non ha trovato ulteriori conferme nella giurisprudenza della Suprema Corte.

Certo è che a nulla rileva, ai fini dell’art. 171-bis, la detenzione da parte di semplici liberi professionisti, che restano quindi esclusi dal novero dei soggetti attivi del reato (Cass. Pen. 49385/2009).

  1. SANZIONI AMMINISTRATIVE: ART. 174-BIS e RAPPORTI CON L’ART. 171-BIS

Alla violazione di una delle norme previste nella II sezione della legge 633/1941 (ivi incluso, quindi, l’art. 171-bis) consegue, ai sensi dell’art. 174-bis, l’applicazione – in aggiunta alle sanzioni penali – di una sanzione amministrativa pecuniaria pari al doppio del prezzo di mercato del singolo software, in misura comunque non inferiore ad Euro 103,00. Nel caso in cui il prezzo non sia facilmente determinabile, si applica una sanzione da Euro 103,00 ad Euro 1032,00. Le sanzioni sono cumulative e si applicano nella misura stabilita per ogni esemplare abusivamente duplicato o detenuto.

Le disposizioni contenute negli artt. 171-bis e 174-bis sono del tutto autonome, così come i relativi accertamenti e le conseguenti sanzioni (la sanzione amministrativa non è quindi accessoria a quella penale ma è del tutto indipendente). Autonomi sono anche i procedimenti che da esse possono scaturire, che proseguono parallelamente secondo le ordinarie competenze (Giudice penale in un caso e Prefetto/TAR nell’altro).

Tuttavia, ai sensi dell’art. 654 co. 5 c.p.p., l’accertamento (positivo o negativo) operato nel processo penale con sentenza irrevocabile ha efficacia di giudicato nel parallelo giudizio amministrativo.

Al contrario, l’esito del procedimento amministrativo non pregiudica in alcun modo l’accertamento del reato: non è infatti applicabile nel caso di specie l’art. 24 della l. 689/1981[3], che viene in rilievo nei soli casi in cui l’accertamento dell’illecito amministrativo costituisca l’antecedente logico necessario per l’esistenza del reato (Cass. Civ. 22362/2006).

Maggiori dubbi, invece, riguardano l’efficacia dell’eventuale decreto di archiviazione rispetto alla contestazione amministrativa: l’art. 654 c.p.p., infatti, non prende in esame tale ipotesi, sicché si potrebbe ritenere che l’eventuale archiviazione del procedimento penale non precluda la prosecuzione del procedimento amministrativo.

A diverse conclusioni è approdata una parte della giurisprudenza di merito (Trib. Pordenone, 8.5.2015), secondo la quale il venir meno della contestazione in sede penale comporta la caducazione del presupposto applicativo dell’art. 174-bis e, conseguentemente, l’annullamento del relativo atto amministrativo (verbale di contestazione o ordinanza-ingiunzione).

III. ACCERTAMENTO E CONTESTAZIONE DELLE VIOLAZIONI AMMINISTRATIVE

Per quanto riguarda le modalità di accertamento degli illeciti previsti dall’art. 174-bis (e quindi dalla Sezione II della legge 633/1941), la normativa di riferimento è rinvenibile nella L. 689/1981.

In particolare, posto che – ai fini dell’accertamento del reato di cui all’art. 171-bis – l’Autorità preposta alle indagini ha a disposizione tutti gli strumenti concessi dal Codice di Procedura Penale, l’art. 13 della l. 689/1981 consente ai pubblici ufficiali incaricati di assumere informazioni, procedere a ispezioni di cose e luoghi diversi dalla privata dimora, a rilievi descrittivi e fotografici e ad ogni altra operazione tecnica.

All’esito degli accertamenti, gli Agenti hanno l’obbligo di redigere il verbale di contestazione e di notificarlo al trasgressore entro il termine di novanta giorni dall’accertamento (art. 14).

La sanzione pecuniaria può essere pagata in misura ridotta pari alla terza parte del massimo della sanzione prevista per la violazione commessa o, se più favorevole, al doppio del minimo della sanzione edittale, entro il termine di sessanta giorni dalla contestazione.

Entro il termine di 30 giorni dalla data della contestazione, il presunto trasgressore può inoltre chiedere di essere sentito dal Prefetto o far pervenire a quest’ultimo scritti difensivi o documenti (art. 18).

A tal riguardo, è opportuno precisare che il verbale di accertamento fa piena prova, fino a querela di falso, dei fatti avvenuti in presenza del p.u., delle dichiarazioni da lui ricevute e delle operazioni da lui compiute (fra le tante Cass. Civ., 23800/2014).

Il Prefetto, sentiti gli interessati ed esaminate eventuali memorie o documenti, può procedere in due modi fra loro alternativi:

–          nel caso in cui ritenga fondata la contestazione, determina la somma dovuta e ne ingiunge il pagamento con ordinanza-ingiunzione (impugnabile avanti il TAR) che costituisce titolo esecutivo per la P.A.;

–          ove ritenga insussistente la violazione, emette ordinanza motivata di archiviazione degli atti.

In un caso e nell’altro, come si è detto, la decisione del Prefetto non pregiudica in alcun modo il parallelo procedimento penale, che si sviluppa in modo autonomo e del tutto indipendente da quello amministrativo.

Dott. Andrea Vareschi

[1] Va in ogni caso ricordato che, ai sensi dell’art. 181-bis, in determinate (e numerose) ipotesi il contrassegno può essere sostituito da apposite dichiarazioni identificative che produttori e importatori preventivamente rendono alla SIAE.

[2]  V. ad esempio Trib. Bolzano, Sent. 31-03-2005, che ha statuito che la semplice detenzione di programmi per elaboratore, privi delle relative licenze d’uso, senza che vi sia stato alcun ulteriore accertamento idoneo a provare, con sufficiente certezza, sia l’origine illecita dei programmi medesimi, sia la consapevolezza di tale illiceità, non può ritenersi da sola condotta sufficiente ad integrare il delitto di cui all’art. 171 bis.

[3] “Qualora l’esistenza di un reato dipenda dall’accertamento di una violazione non costituente reato, e per questa non sia stato effettuato il pagamento in misura ridotta, il giudice penale competente a conoscere del reato è pure competente a decidere sulla predetta violazione e ad applicare con la sentenza di condanna la sanzione stabilita dalla legge per la violazione stessa”.