L’apertura di credito (comunemente denominata “affidamento” o “fido” bancario) è uno strumento di fatto imprescindibile per la continuità operativa di molte piccole e medie imprese italiane, le quali – al fine di mantenere un costante equilibrio fra entrate e uscite, messo alla prova dalle molte spese mensili (utenze, stipendi, eventuale pagamento dei fornitori) e dai frequenti ritardi nelle entrate – sono costrette a ricorrere al credito bancario.

Tale fisiologica ed endemica dipendenza del sistema imprenditoriale italiano dal credito bancario fa sì che, di fatto, il recesso unilaterale dal contratto di affidamento da parte dell’istituto bancario possa provocare dissesti irreversibili nel soggetto finanziato (ossia l’impresa), che può trovarsi da un momento all’altro del tutto privo della liquidità necessaria per far fronte alle proprie obbligazioni.

Per tale motivo, è importante comprendere quando la revoca dell’affidamento possa considerarsi legittima e quando, invece, esiste un margine di contestazione da parte del soggetto finanziato.

Sul punto, è necessario innanzitutto premettere che la legge regola diversamente il diritto di recesso unilaterale dal contratto di affidamento a seconda che quest’ultimo sia stato stipulato a tempo determinato o a tempo indeterminato.

Nel primo caso, infatti, il recesso prima della scadenza è consentito soltanto se sussiste una giusta causa; una volta comunicata al cliente l’intenzione di esercitare il recesso, la banca dovrà in ogni caso concedere a quest’ultimo un termine di quindici giorni per la restituzione delle somme utilizzate e degli eventuali accessori (art. 1845 co. 1-2 c.c.).

Più interessante (e più diffusa) è l’ipotesi del contratto di affidamento a tempo indeterminato: in tal caso, infatti, la Legge consente all’istituto bancario di esercitare il diritto di recesso senza necessità di giustificato motivo, in qualsiasi momento, semplicemente dandone comunicazione al cliente con un preavviso minimo di quindici giorni (art. 1845 co. 3 c.c.).

È evidente che una simile facoltà concessa alle banche può essere foriera di notevoli problematiche e squilibri non soltanto per il cliente ma anche per l’intero mercato finanziario, considerato che molte imprese – per la loro connotazione operativa e strutturale – non possono prescindere dal credito bancario.

Proprio per tale motivo, nel tempo la Corte di Cassazione ha via via ristretto l’ambito operativo del diritto di recesso (di fatto illimitato), precisando che la revoca va considerata illegittima quando riveste i caratteri dell’arbitrarietà e dell’imprevedibilità.

Più nello specifico – in un’ipotesi in cui l’amministratore di una società aveva convenuto in giudizio una banca, individuando nell’improvviso ritiro degli affidamenti da parte di quest’ultima l’origine dello stato di insolvenza in cui versava la società (Cass. civ. Sez. I Sent., 06/08/2008, n. 21250) – la Suprema Corte ha statuito che “l’esercizio del diritto di recesso, contrattualmente stabilito, deve essere valutato nel complessivo contesto dei rapporti intercorrenti tra le parti, onde accertare se detto recesso sia stato o meno esercitato secondo modalità e tempi che non rispondono ad un interesse del titolare meritevole di tutela, ma soltanto allo scopo di arrecare danno all’altra parte, incidendo sulla condotta sostanziale che le parti sono obbligate a tenere per preservare il reciproco interesse all’esatto adempimento delle rispettive prestazioni”.

Così anche altra rilevante Giurisprudenza, la quale ha sostenuto che non possa ritenersi del tutto insindacabile il diritto potestativo di recesso da parte dell’istituto bancario, dovendosi in ogni caso rispettare il fondamentale e inderogabile principio secondo il quale il contratto deve essere eseguito secondo buona fede.

In effetti, secondo la Cassazione “non può escludersi che, anche se pattiziamente consentito in difetto di giusta causa, il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito sia da considerare illegittimo, ove in concreto esso assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari; connotati tali, cioè, da contrastare con la ragionevole aspettativa di chi, in base ai comportamenti usualmente tenuti dalla banca ed all’assoluta normalità commerciale dei rapporti in atto, abbia fatto conto di poter disporre della provvista creditizia e non potrebbe perciò pretendersi sia pronto in qualsiasi momento alla restituzione delle somme utilizzate, se non a patto di svuotare le ragioni stesse per le quali un’apertura di credito viene normalmente convenuta” (Cass. civ. Sez. I, 14-07-2000, n. 9321).

Di fatto, quindi, ciò che la giurisprudenza richiede anche per il recesso dal contratto di affidamento a tempo indeterminato è una giusta causa: in assenza di quest’ultima, il recesso dovrà considerarsi arbitrario e quindi illegittimo.

Ovviamente, per non svuotare di senso la portata del principio posto dalla Cassazione, tale giusta causa dovrà risiedere in gravi indici rivelatori di una situazione di dissesto economico-finanziario dell’impresa, quali a titolo esemplificativo l’aver subito protesti cambiari, l’essere stati destinatari di istanze di fallimento, l’aver omesso di versare le retribuzioni dei dipendenti.

Tale situazione di dissesto non potrà quindi essere meramente ipotetica o asserita dalla banca sulla base di circostanze poco significative (ad es. le scarse movimentazioni del conto o la semplice apprensione di una notizia circa le condizioni economiche della società), ma dovrà essere fondata su indici seri e concordanti di carattere finanziario.

Quando, allora, può dirsi illegittima la revoca degli affidamenti?

Qualora la banca receda improvvisamente dal contratto di affidamento senza congruo termine, senza preavviso o in assenza di legittime motivazioni (è sufficiente uno solo di questi requisiti), la sua condotta è ritenuta da giurisprudenza e dottrina illegittima e come tale idonea a far sorgere in capo al soggetto leso il diritto ad esperire un’azione giudiziaria per ottenere il risarcimento dei danni subiti.

Entro quando è possibile far valere in giudizio la lesione del proprio diritto? Il termine di prescrizione entro il quale un cliente può far causa ad una banca è di dieci anni: tale termine normalmente decorre dalla chiusura del rapporto, e cioè dalla data di chiusura della linea di credito (così Cass. civ. Sez. Unite, 02/12/2010, n. 24418).

A questa azione, da esperirsi davanti al giudice ordinario, si aggiunge un’ulteriore azione possibile: nel caso, invero molto frequente, in cui alla chiusura dell’affidamento consegua la segnalazione del nominativo del cliente a sofferenza alla Centrale dei Rischi, contro tale segnalazione giurisprudenza e dottrina unanimi ritengono esperibile il ricorso alla tutela cautelare ex art. 700 c.p.c..

 

Avv. Filippo Genovesi