I social network sono ormai da tempo entrati nella vita quotidiana di tantissime persone.

Talvolta, tuttavia, il presunto anonimato di fronte allo schermo del proprio PC o del proprio smartphone, la mancanza di rapporto diretto con un numero elevato, o talvolta addirittura indeterminato di persone, e la leggerezza con cui molte persone scrivono nell’ambiente virtuale rischia di comportare l’utilizzo di espressioni inadeguate ed offensive che possono costituire illeciti di natura civile o penale.

Per quanto attiene la rilevanza civilistica delle ingiurie, a seguito della loro recente depenalizzazione (avvenuta con l’abrogazione del reato di cui all’art. 594 del codice penale operata dal D.Lgs. gennaio 2016, n. 7), tali condotte possono oggi comportare, oltre ad una condanna al risarcimento del danno, la condanna ad una pena pecuniaria in sede civile.

Qualora vengano proferite ingiurie nell’ambito di una conversazione fra due persone nella chat di Facebook, ad esempio, la persona che ha subito le ingiurie potrà agire con un azione per il risarcimento del danno che potrà dare luogo, all’esito del giudizio, oltre alla condanna per il risarcimento del danno subito anche ad una condanna ad una pena pecuniaria civile.

A norma dell’art. 4 lett. a) del D.Lgs. citato, infatti, “chi offende l’onore o il decoro di una persona presente, ovvero mediante comunicazione telegrafica, telefonica, informatica o telematica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa” è punito con la sanzione pecuniaria civile da euro 100 a euro 8.000 mentre nel caso in cui l’offesa consista nell’attribuzione di un fatto determinato o sia commessa in presenza di più persone la sanzione aumenta entro una forbice che va da euro 200 ad euro 12.000.

L’importo della sanzione pecuniaria civile da versarsi alla Cassa delle Ammende, viene determinato dal Giudice sulla base di una serie di parametri specificamente individuati dall’art. 5 del D. Lgs. 7/2016: la gravità della violazione, la reiterazione dell’illecito, l’eventuale arricchimento del soggetto responsabile, la personalità dell’agente e le sue condizioni economiche, nonché l’eventuale attività svolta dallo stesso per eliminare o attenuare le conseguenze dell’illecito.

Nel caso in cui, invece, le offese al decoro e all’onere siano arrecate comunicando con più persone, e quindi ad esempio con un post sulla propria bacheca di facebook o con un tweet, si rischierà di incorrere nel reato di diffamazione, aggravato, ai sensi dell’art. 595, comma 3, c.p. dall’uso di un “mezzo di pubblicità” e punito con la pena della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516.

La Corte di Cassazione, infatti, già con una pronuncia del 2014[1] aveva ritenuto sussistente il reato nella sua forma aggravata “tenuto conto che la pubblicazione della frase indicata nell’imputazione sul profilo del social network facebook rende la stessa accessibile ad una moltitudine indeterminata di soggetti con la sola registrazione al social network ed anche per le neotizie riservate agli amici ad una cerchia ampia di soggetti”.

Più di recente, nella motivazione depositata il 1 febbraio 2017, la Cassazione ha ribadito che il messaggio diffamatorio mediante l’uso di facebook integra il reato di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma 3, c.p., ed in particolare, ha osservato che la diffusione di un messaggio diffamatorio sulla bacheca di facebook è da considerarsi effettuata “con qualsiasi mezzo di pubblicità (…) che il codificatore ha giustapposto a quella del ‘mezzo di stampa”.

 

Avv. Filippo Genovesi

[1] Cass. Pen. Sez. I, 16 aprile 2014, n. 16712, nello stesso senso, tra le altre, anche Cass. pen. Sez. I, 28 aprile 2015, n. 24431.